Il ripensamento del travagliato rapporto tra città e porto sollecita una visione strategica e un pragmatismo fertile capaci di coniugare esigenze, ruoli e scale di programmi apparentemente inconciliabili e tuttavia necessariamente coesistenti. Da un lato la reciproca, auspicabile e ripetutamente invocata interazione tra spazi e funzioni urbane, non solo del waterfront storico ma di tutta la fascia di contatto e osmosi dello sviluppo lineare del porto. Dall’altra il ruolo di grande e competitivo porto mediterraneo con tutte le implicazioni che questo comporta sulle criticità spaziali, funzionali e logistiche attuali e sul rapporto porto/retroporto/interporto in relazione alle grandi infrastrutture e alle politiche di rigenerazione e razionalizzazione della città metropolitana.
La domanda di spazio pubblico è sempre stata forte ed esplicita in questo tratto di costa. Dalla Tavola Strozzi del 1465 al noto dipinto di Antonio Ioli della seconda metà del XVIII secolo viene trasmessa fino ai giorni nostri un’immagine del perduto rapporto città-porto: il molo in primo piano come attracco e passeggiata, il Castel Nuovo bagnato dal mare e soprattutto la direttrice visiva dal porto a Castel S. Elmo e alla Certosa di San Martino. Ad essa la cultura urbana moderna e contemporanea dell’ultimo secolo si è costantemente riferita per riscoprirne e attualizzarne il senso, a partire dall’intuizione architettonica e urbana della stazione marittima di Cesare Bazzani del 1936. Questa domanda peraltro si rilegge anche nella travagliata vicenda della strada costiera antistante i tessuti medievali tra l’Immacolatella e il Castello del Carmine, a seguito della dismissione e demolizione delle mura: dallo spazio urbano della “strada nuova” – voluta da Carlo III di Borbone e leggibile fin dalla carta del Duca di Noja – alla inarrestabile perdita di contatto col mare causata dalla realizzazione progressiva del porto e delle sue colmate e dalla realizzazione di un anonimo stradone, ripetutamente rinominato nel corso del Novecento e definitivamente divenuto nel dopoguerra un puro canale di traffico, dopo lo stravolgimento del piano di Ricostruzione di Luigi Cosenza (Amirante, 1993).
Tavola Strozzi 1465.
Più di recente, gli eventi ciclici ma intensi e popolari, ospitati nel grande spazio portuale antistante piazza Municipio, come anche un dibattito pluridecennale sulla demolizione del recinto portuale e sul recupero di alcuni spazi di interesse urbano – dai Giardini del Molosiglio al Parco della Marinella – hanno costantemente segnalato l’esigenza di una riappropriazione dell’area portuale da parte della città.
A questa domanda di spazio urbano si contrappongono le esigenze imprescindibili e non trasferibili altrove legate al ruolo del porto come grande nodo intermodale e spazio attrezzato per i traffici commerciali. Le molteplici esigenze dei flussi specializzati, assieme a quelli di lavorazione e stoccaggio delle merci, esprimono infatti diversi gradienti di porosità e di “resistenza” alle pressioni esercitate dalla città in questo esteso recinto allungato, producendo quindi modalità differenziate di compenetrazione urbana lungo gli oltre 5 chilometri di costa che vanno dal Castel Nuovo sino alle propaggini orientali del porto a S. Giovanni a Teduccio.
In questo tratto convergono e interagiscono infatti consistenti flussi commerciali della logistica internazionale e del traffico petrolifero a servizio dei grandi depositi presenti nella zona orientale della città, i flussi crocieristici e quelli delle cosiddette “autostrade del mare”; come anche gli spostamenti pendolari e turistici della navigazione nel golfo, con oltre 6 milioni di passeggeri all’anno, a cui si aggiungono i 30.000 autobus che convergono ogni anno sul polo dell’Immacolatella. Flussi che esprimono quotidianamente anche una pressione inversa, dal recinto portuale alla città storica, riconducibili soprattutto al traffico pesante su gomma e agli spostamenti delle merci verso l’area metropolitana e oltre. Ma in cui si sovrappongono e si intersecano anche altre domande che non possono essere derubricate solo a esigenze funzionali di spostamento e mobilità.
Si tratta di domande generate da esigenze spaziali, culturali e sensoriali di scoperta e accoglienza legate alle diverse forme e traiettorie di viaggio, vitali per una città di mare, che qui si mescolano quantunque mortificate da una condizione di frammentazione, congestione e desertificazione della qualità urbana.
Vista attuale del porto di Napoli e della Stazione Marittima.
Una città senza waterfront
Dieci anni fa è stata avviata un’operazione pubblica di progettazione del waterfront portuale storico della città di Napoli che avrebbe potuto costituire un’occasione straordinaria di progettazione urbana, capace cioè di modificare sostanzialmente il rapporto tra città e mare componendo esigenze apparentemente inconciliabili nel tratto maggiormente malleabile del recinto portuale, tra la Darsena Acton e l’Immacolatella vecchia.
Il bisogno di partecipare al ripensamento dell’immagine complessiva della città, in uno dei luoghi di eccellenza della storia urbana di Napoli denso di tracce sepolte e visibili della sua dinamica storica, deve infatti qui coniugarsi alla ineludibile necessità di garantire un’adeguata ricchezza funzionale e un’efficace interazione con i molteplici flussi delle vie del mare e del loro indotto. Si trattava, e si tratta ancora oggi, di sfuggire alle banalizzazioni ricorrenti di operazioni analoghe realizzate in altre città del mondo nel corso dei decenni passati, concepite solo come spazi commerciali e del divertimento (Bruttomesso, 1993; Hoyle, Pinder, Husain, 1994; .Marshall, 2011). Ad un’idea cioè del porto storico come semplice enclave monofunzionale del tempo libero, resa peraltro impraticabile in questo caso dall’impossibilità di trasferire radicalmente altrove alcune esigenze logistiche del trasporto marittimo. Eravamo convinti invece di un’ipotesi più fertile di spazio urbano complesso, ricco di potenzialità sociali, funzionali e simboliche e, al contempo, di domande economiche e produttive connesse al rilevante ruolo svolto dal porto di Napoli nel bacino del Mediterraneo. Insomma un luogo felicemente ibrido la cui vitalità e qualità sarebbe stata alimentata da una commistione e intersezione di domande e flussi di natura diversa. Questa prospettiva era convintamente contemporanea perché basata su un’idea di spazio urbano dinamico in cui usi temporanei e specializzati, legati all’incontenibile infiltrazione della città nel porto e, all’inverso, del porto in città potesse determinare un paesaggio urbano in continuo movimento (Pavia, 2012).
Per rispondere a queste domande si trattava di integrare quindi diversi obiettivi. Sul versante strettamente portuale, occorreva realizzare un polo di rilievo internazionale di carattere turistico, culturale e ludico a servizio della città, caratterizzato dalla concentrazione in quest’area dell’intero traffico passeggeri (crociere, traghetti, aliscafi), dalla realizzazione di un approdo per imbarcazioni da diporto ad integrazione di quello previsto a Vigliena e a seguito della dismissione dello scalo passeggeri di Mergellina, dalla localizzazione di un sistema di attrezzature turistico-ricettive, cultural-museali e ricreative ad integrazione delle attività connesse alla mobilità portuale, al fine di determinare condizioni di complessità e vitalità funzionale dell’area aldilà delle tradizionali destinazioni e modalità d’uso portuale. Contestualmente era necessario ridefinire le connessioni spaziali interne all’area portuale, superando le attuali separazioni e difficoltà di orientamento e accessibilità tra le parti, anche attraverso un riordino dei tracciati, degli attracchi e degli spazi di movimentazione e di servizio, in grado di mettere in rete le risorse esistenti e future e di configurare una sistemazione organica dei percorsi e degli spazi aperti in rapporto alle nuove funzioni previste. Per ottenere questo obiettivo si rendeva possibile la delocalizzazione di alcune volumetrie esistenti e la realizzazione di servizi a supporto del traffico passeggeri per il golfo lungo il perimetro del porto.
Strettamente complementare a questa strategia era quella di riconquistare e rafforzare la centralità di piazza Municipio, ridefinendo le connessioni spaziali tra l’area portuale storica e la città, realizzando un grande spazio pubblico monumentale pedonalizzato dalla stazione marittima a piazza del Plebiscito, così come previsto anche dal PRG del Comune di Napoli approvato nel 2004, ripensando le connessioni funzionali con i sistemi di percorrenza pedonale e con le due fermate della metropolitana in costruzione, e valorizzando al contempo le risorse storico-architettoniche e archeologiche presenti nell’area. Di qui l’esigenza di eliminare la cesura stradale storicamente causata da via Acton e dall’apertura della galleria della Vittoria alla fine degli anni ‘20, spostando i flussi automobilistici a raso di attraversamento est-ovest ad un livello sotterraneo e riconnettendo così lo spazio portuale con quello urbano, con particolare riferimento alla ricostruzione delle relazioni con la Darsena Acton, i giardini di palazzo Reale e del Molosiglio, il Castel Nuovo e ovviamente la stessa piazza Municipio. La proiezione della città nel porto doveva infine ritrovare una sua penetrazione profonda nello specchio d’acqua antistante attraverso la riconversione funzionale della Darsena Acton e la riconquista pubblica del lungo e stratificato molo San Vincenzo, ancora oggi occupati entrambi dalla Marina Militare, per realizzare una spettacolare passeggiata a mare, così come era accaduto col pontile di Bagnoli nel cuore del paesaggio flegreo e a stretto contatto con la monumentalità dell’ex acciaieria.
Veduta di Napoli dal molo San Vincenzo.
L’occasione di questo dialogo possibile tra l’area portuale e la città era d’altronde rafforzata da alcuni progetti in corso di realizzazione. In primo luogo, come accennato in precedenza, la realizzazione delle stazioni della linea 1 e della stazione di testa della linea 6 della metropolitana con la connessa sistemazione della piazza Municipio che Alvaro Siza ha interpretato con un progetto essenziale e raffinato. I flussi di passeggeri diretti alle stazioni e quelli in uscita, verso la città e il porto, vitalizzano nella sua idea un ampio spazio ipogeo, sottostante la piazza, illuminato dall’alto da una lunga e stretta asola longitudinale e aperto lateralmente verso il fossato di Castel Nuovo e i resti della murazione aragonese. In questo spazio trovano collocazione i principali reperti archeologici di epoca romana emersi durante i lavori, in particolare le quattro imbarcazioni legate alla scoperta del profilo originario della costa e dell’antico porto. Dirigendosi verso il mare, il lungo percorso che attraversa longitudinalmente la piazza risale dolcemente fino al piazzale della stazione marittima, dentro il recinto portuale, sollecitando un raccordo con un nuovo sistema di tracciati per l’accesso ai moli e ai servizi marittimi.
Era tuttavia chiaro che, se si fosse voluta realizzare un’integrazione tra città e porto così ambiziosa era necessario costruire una governance adeguata per metterlo in moto e avviare un processo decisionale e attuativo efficace. Di qui la costruzione di un soggetto pubblico unico nel quale i diversi attori in gioco – l’Autorità Portuale in primo luogo ma poi ovviamente anche il Comune di Napoli, la Provincia e la Regione Campania – costruissero le necessarie forme di cooperazione istituzionale superando storiche divisioni di competenze, separazioni e conflittualità, tentando una strada europea alla trasformazione urbana di quest’area.
In questa direzione viene costituita nel 2003 una società interamente pubblica – la Nausicaa, con la maggioranza detenuta dall’Autorità Portuale e le restanti quote detenute in parti uguali da Comune, Provincia e Regione – con il compito primario di promuovere la progettazione degli interventi per la riqualificazione urbanistica, architettonica e funzionale dell’area monumentale del Porto che va dall’Immacolatella vecchia al Molosiglio [1].
Si trattava di un modello organizzativo innovativo di società per la progettazione e gestione di progetti urbani complessi come questo dove diversi soggetti pubblici debbono far convergere, su un obiettivo specifico e spazialmente definito, le proprie decisioni spesso demandate a sedi e tempi diversi e difficilmente conciliabili. Un’innovazione peraltro che è stata valutata con grande interesse in sedi nazionali e internazionali prestigiose dove abbiamo avuto il piacere di presentarla.
Il primo passo della società è stato quindi quello di promuovere e portare a termine un Concorso Internazionale di Progettazione in due fasi, un concorso di idee e uno per la progettazione preliminare delle opere. Il concorso venne espletato in 12 mesi: bandito il 30 marzo 2004, ha previsto un’originale modalità (per Napoli) di sopralluoghi e interlocuzioni con la committenza, e le due fasi in cui si articolava si conclusero nell’aprile 2005. In questa data infatti, la Commissione incaricata per la selezione dei progetti [2] proclamò il gruppo di progettazione guidato dall’arch. Michel Euvé vincitore del concorso.
È raro riscontrare, nell’esperienza italiana e internazionale, tempi così brucianti per un concorso in due fasi di questa importanza.
Dal punto di vista formale, il progetto vincitore sceglie una strada che è quella di lavorare soprattutto su un disegno di suolo fatto di corrugamenti, incisioni, inclinazioni e slittamenti. Concentra la sua attenzione principale sul margine città/porto trasformandolo in una frontiera osmotica che gioca più su una dimensione di landscape dell’area portuale come grande sistema di spazi aperti che sulla visibilità tridimensionale di nuovi edifici. Un’area-filtro strutturata su un lungo e vitale tracciato, denso di attività, entro il quale si incanalano i flussi pedonali provenienti dalla città e dal mare, dilatando la via Marina e garantendo un’ampia apertura visiva verso il mare e le attività interne al porto.
Il suo sviluppo lineare si distende, con uno spessore asimmetrico, tra la darsena Acton e l’Immacolatella vecchia, alludendo ad una potenzialità trasformativa che potrebbe, in futuro coinvolgere l’intero fronte portuale. Un lungo edificio sollevato dal suolo su alti pilastri rafforza poi questa linearità lungo la via Marina, proponendosi come condensatore di energia alternativa e come attrattore di funzioni pregiate. Così facendo, il progetto disegna una grande “T” rovesciata con la direttrice trasversale che attraversa l’intera piazza Municipio, provenendo idealmente dalla collina di Castel S. Elmo, e che si dirige percettivamente verso la Stazione Marittima di Bazzani rafforzata dal progetto di Alvaro Siza.
Modificando l’attuale complanarità del piazzale prospiciente la Stazione Marittima con la piazza Municipio attraverso un ampio piano leggermente inclinato, il progetto poi raggiunge l’obiettivo di continuare a garantire l’uso di questo luogo per eventi collettivi e, contemporaneamente, dare una misura a quello prospiciente la Stazione stessa (Gasparrini 2005, 2009; Pavia, 2012).
Questo progetto ha prevalso su quello pur fascinoso e visionario di Stefano Boeri, in cui l’innovazione tecnologica dà forma ad un paesaggio dominato da luminosi e vetrati cilindri alimentati dall’energia geotermica, spettacolari parabole per la cattura dell’energia solare, anelli aerei per la fitodepurazione, spingendo al limite estremo un’idea di discontinuità dell’immagine urbana proposta da quella storica. Ha prevalso anche sul progetto, diametralmente opposto nella concezione, elaborato dal gruppo guidato da Mauro Saito che ha lavorato su un attento dosaggio tra continuità e discontinuità, non nascondendo una propensione per la ricucitura e la dilatazione, fin dentro l’area portuale, delle tracce e delle misure della città storica e dei suoi progetti anche recenti.
Schema planimetrico di progetto del waterfront storico.
La rapidità del percorso intrapreso e dei risultati concorsuali si scontrerà tuttavia con le conseguenze prodotte da una defatigante vicenda giudiziaria scatenata dai ricorsi di uno dei due gruppi di progettazione finalisti posizionatisi dopo quello vincitore, che impegna la Commissione e la Società in un rimpallo di pareri, atti e sentenze. Un copione purtroppo assai frequente in Italia e al sud, al punto che molti progettisti e imprese internazionali preferiscono non scendere al disotto di Roma. La vicenda giudiziaria si conclude definitivamente solo nel luglio del 2009 a favore della Nausicaa. Solo a partire da questa data quindi il processo di progettazione e attuazione avrebbe potuto riprendere slancio
I 4 anni di sostanziale stallo nel percorso progettuale avevano determinato alcuni cambiamenti nel quadro decisionale. In particolare il nuovo Sovrintendente per i beni architettonici e paesaggistici Stefano Gizzi si era espresso nel maggio 2008 in merito all’opportunità di conservare l’edificio di Marcello Canino dei Magazzini Generali, su cui negli anni precedenti la Sovrintendenza aveva invece formulato una posizione possibilista per la sua demolizione in ragione delle esigenze di funzionalità dell’area portuale.
Si tratta di un edificio architettonicamente essenziale, posto parallelamente e a poca distanza dall’attracco principale del Molo del Piliero, che avrebbe dovuto svilupparsi linearmente per una lunghezza doppia rispetto a quella effettivamente realizzata. L’emergere di nuovi vincoli nel corso del processo progettuale e attuativo, pur costituendo un impedimento oggettivo ad una rapida attuazione, tuttavia spesso consente di migliorarli e qualificarli. Si avvia quindi la revisione del progetto vincitore del Concorso internazionale per accogliere la conservazione dell’edificio dentro il disegno urbano complessivo approvato nel 2005.
La decisione di conservare l’edificio dei Magazzini Generali di Marcello Canino modificava alcune delle condizioni che erano state poste a base del concorso internazionale vinto dal progetto del gruppo Euvè. Allo stesso tempo, pur rendendosi necessarie alcune modifiche al progetto per adattarlo alle mutate condizioni, la strategia da questo prevista reggeva brillantemente l’impatto di tali scelte. La previsione della filtering line e il progetto di suolo che essa configurava si confermavano infatti il connotato di maggiore interesse da salvaguardare e ulteriormente sviluppare nelle mutate condizioni: la strada incassata e la modellazione del suolo si connettevano efficacemente alla direttrice ipogea prevista dalla sistemazione di piazza Municipio di Alvaro Siza, dilatandola nell’ambito portuale, sviluppando le percorrenze pedonali necessarie per una fruibilità dei suoi spazi e risolvendo il tema del rapporto d’uso e visivo tra la città e il porto storico.
Planimetria generale di progetto del waterfront storico.
In questo quadro si collocava la decisione di conservare l’edificio incompiuto di Canino e la coraggiosa scelta del suo “raddoppio” per recuperare la dimensione originaria mai realizzata, introducendo una presenza architettonica e funzionale che ha ricadute su più fronti:
Innanzitutto sposta l’interpretazione del tema relativo alla riorganizzazione di volumi e usi portuali dalla densificazione del bordo su via Marina e dalla “liberazione” del piazzale retrostante il molo del Piliero ad una più ricca compresenza di funzioni e spazi coperti e aperti, proiettando anche gli usi collettivi verso il bordo del mare e richiedendo quindi una valutazione attenta delle necessarie compatibilità con gli usi portuali veri e propri, in particolare quelli legati alle “autostrade del mare”.
I rapporti tra spazio urbano e portuale vengono quindi ancor più decisamente sollecitati ad essere riguardati in modo integrato come dilatazione della piazza Municipio e della sua direttrice strutturante ortogonale alla linea di costa, nella quale trovano collocazione e si misurano le reciproche distanze di quattro grandi eventi architettonici: il Maschio Angioino, la palazzata di via Marina con l’edificio d’angolo di Canino, la stazione marittima di Bazzani e, appunto, l’edificio lineare dei Magazzini Generali dello stesso Canino di cui si prevede il “raddoppio”.
Al contempo, il disegno di suolo della filtering line è chiamato ad assumere un ruolo ancor più ambizioso, quello cioè di intercettare trasversalmente l’edificio raddoppiato dei Magazzini per determinare una forte integrazione spaziale e funzionale, a livello di suolo e sottosuolo, delle percorrenze tangenziali all’area portuale (la “T” pensata assieme alla direttrice di Siza) con i flussi trasversali che la presenza di questo edificio determina.
Da questo punto di vista si rivelò suggestiva e percorribile l’idea di interpretare questa integrazione anche nei termini di una promenade che ha il suo recapito finale e spettacolare nell’uso della terrazza dei Magazzini Generali intesa come piazza sollevata da cui traguardare la città e il golfo a 360 gradi. In tal modo, il disegno di suolo suggerito dalla filtering line avrebbe potuto assumere un ruolo felicemente pervasivo per tutto lo spazio aperto portuale, nell’alternanza di quote e flussi che esso deve garantire.
Il “raddoppio” dell’edificio di Canino, quindi – come accade spesso in tante operazioni analoghe in giro per le città del mondo – si pose il delicato tema di integrare il rispetto dei connotati moderni del manufatto da conservare con il linguaggio contemporaneo della sua addizione senza alcun cedimento mimetico. Un’operazione questa da riguardare non solo alla scala architettonica dell’edificio ma anche a quella urbana a cui la nuova configurazione veniva chiamata a dare risposta. L’edificio assumeva quindi il ruolo e il senso di avamposto eccellente del waterfront storico, sia per chi proviene dal mare sia per chi vi si affaccia, integrandosi con il sistema di flussi pedonali e carrabili entro cui si colloca, con importanti conseguenze sull’alternanza di compattezza e porosità delle sue fronti (Gasparrini, 2014).
Filtering Line: schemi esplicativi.
Nel corso del 2010, il progetto originario venne modificato da Euvé ricevendo un consenso unanime per la sua approvazione da parte di tutti gli attori pubblici coinvolti nel processo decisionale, Sovrintendenza compresa. Ma il conflitto interno all’Autorità Portuale innescato dalle pretese di un gruppo di privati di aver riconosciuto un diritto, non riconoscibile, di progettare ed eseguire interventi su aree demaniali senza rispettare le regole e le garanzie di concorrenzialità imprenditoriale nella realizzazione delle opere pubbliche, si spinse fino alla richiesta, nel novembre 2010, di sciogliere la Società pubblica Nausicaa. Non si trattò di un conflitto irrilevante dunque, perché si misero di fatto in discussione gli unici progetti legittimati ad essere realizzati perché sorretti da una procedura di evidenza pubblica, per dare spazio alle richieste particolaristiche di singoli operatori economici che non gradivano i vincoli posti dal progetto Nausicaa e dalle procedure di gara che la sua attuazione sottendeva. Lo scioglimento di quella società piuttosto che liberare energie e dare impulso all’attuazione di quell’intervento di riqualificazione, ha di fatto interrotto il processo progettuale e attuativo, a meno di alcuni avanzamenti relativi alla sistemazione del Molo Beverello [3].
Vista di progetto con la sistemazione del Molo Beverello.
Un porto in declino isolato dalla Città Metropolitana
A quasi 4 anni di distanza è infatti difficile affermare che la governance opaca e traballante del porto di Napoli abbia brillato in efficienza e in accelerazione dei tempi di realizzazione di qualsiasi intervento. Alcuni segnali inequivocabili confermano una situazione di crisi. Il piano regolatore portuale è stato bocciato nel marzo del 2013 dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici mettendo a rischio il finanziamento FESR 2007-2013 per il cosiddetto Grande Progetto “Sistema integrato portuale di Napoli”. Questo Progetto peraltro è in una pericolosa fase di stallo perché ad oggi non è stata bandita alcuna gara d’appalto e appare tecnicamente impossibile rispettare la data del 31 dicembre 2015 prevista dalle procedure europee di realizzazione e rendicontazione delle opere. Ci si sarebbe peraltro aspettato che, dopo lo scioglimento di Nausicaa, l’Autorità Portuale desse un potente impulso all’attuazione di quel progetto inserendolo proprio nei fondi FESR.
E invece no. Sono stati richiesti fondi per realizzare parcheggi interrati e interventi edilizi nell’area portuale storica ma non per realizzare il nuovo assetto spaziale e funzionale che fu condiviso tra Autorità Portuale, Comune e Sovrintendenza, e che consentirebbe un raccordo organico con la splendida stazione della metropolitana di piazza Municipio di Alvaro Siza e Souto de Moura in corso di ultimazione. Dulcis in fundo, da un anno c’è un Commissario a gestire l’Autorità Portuale e si prevede purtroppo un prolungamento non breve di questa fase di transizione. Sono quindi fondate le preoccupazioni evidenziate da tempo circa le ricadute negative dei conflitti e dei corporativismi espressi dai diversi attori economici e sociali del porto che paralizzano la sua governance, riducendola ad una modesta gestione ordinaria di interessi particolari senza alcuna prospettiva di ampio respiro.
Questa situazione, pur facendo registrare una situazione particolarmente preoccupante nel caso napoletano, è il segnale di un problema ben più ampio e cioè l’assoluta assenza di una visione strategica che sta portando ad un inesorabile declino dello scalo partenopeo.
Il problema non è evidentemente solo dello scalo napoletano ma di tutto il comparto portuale italiano che, soprattutto nel settore dei flussi logistici internazionali, non ha saputo fronteggiare in modo adeguato la concorrenza degli altri porti del Mediterraneo e del Nord Europa. Altri porti dell’area mediterranea infatti, dall’Egitto alla Spagna, dalle coste balcaniche dell’Adriatico alla Grecia, alla Turchia e all’Egitto, hanno saputo fare in tempo gli investimenti necessari nell’ammodernamento infrastrutturale, organizzativo e gestionale, per candidarsi come interlocutori privilegiati delle compagnie di navigazione e intercettare quote crescenti delle rotte delle merci, rispondendo così alle aspettative del trasporto e della logistica internazionali [4].
È un dato che, nonostante un potenziale vantaggio posizionale della penisola italiana rispetto ad altri paesi costieri del Mediterraneo, solamente il 6% circa del movimento container che transita per il Canale di Suez si ferma nei nostri porti. Si tratta di una percentuale uguale a quella della Francia – che però fa affidamento pressoché esclusivo al porto di Marsiglia nel Mediterraneo ma ha altri 7 porti di livello internazionale affacciati sull’Atlantico – ed è inferiore alla Spagna, alla Grecia e ai paesi balcanici in grado oramai di garantire connessioni ferroviarie e stradali con il resto d’Europa più efficienti e rapide di quelle italiane. Ma quel che è più grave è che circa il 20% del traffico in transito nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, proveniente dalle rotte asiatiche, preferisce proseguire verso i porti del nord-Europa, attraversando lo Stretto di Gibilterra e sopportando un tempo di trasferimento via mare di 4 giorni maggiore.
Questo maggior tempo è tuttavia compensato da un minor tempo delle operazioni da svolgere nei porti e negli spostamenti su terra delle merci, oltre che da una drastica riduzione di imprevisti e inefficienze causate dall’organizzazione portuale nel Mediterraneo in confronto a quella del North Range, a dimostrazione che sono i costi complessivi della filiera del trasporto a guidare le scelte degli operatori della logistica. In questo senso il gap con i porti del nord Europa si è accresciuto anche grazie ai consistenti investimenti che Germania, Paesi Bassi e Belgio hanno effettuato negli ultimi anni, portando città come Brema, Rotterdam, Amburgo e Anversa ad incrementare ancor più i propri livelli di competitività rispetto a quelli dei porti del Mediterraneo, a partire da quelli italiani.
Ma soprattutto collocando il livello di accessibilità marittima di quei Paesi – il Liner Shipping Connectivity Index elaborato dall’UNCTAD – subito dopo la vetta della classifica mondiale rappresentata da Cina, Hong Kong e Singapore, mentre l’Italia è al 16° posto dopo anche Francia e Spagna. Stesso discorso per il Logistic Performance Index elaborato dalla World Bank in cui l’Italia è solo al 24° posto, ben distante dai Paesi prima citati: le criticità logistiche italiane producono infatti 1,08 giorni aggiuntivi rispetto alla Germania per la movimentazione delle merci dal porto al magazzino dell’azienda.
Insomma, nonostante un’apparente svantaggio geografico rispetto alle rotte internazionali provenienti da est, i paesi del Nord Europa si confermano le principali porte di accesso per le merci in Europa.
In questo contesto, in cui l’Italia è sempre più fanalino di coda rispetto alle grandi sfide internazionali del commercio via mare, Napoli esprime una tendenza alla progressiva marginalizzazione. Lo testimoniano impietosamente i dati del 2013, con un sensibile calo non solo dei traghetti e delle crociere (circa il 7% in meno) ma anche e soprattutto del movimento container rispetto al 2012. Mentre questo movimento a livello nazionale è aumentato del 5%, quello del porto di Napoli, dopo una lunga fase di moderata ma costante crescita, si è contratto in un anno del 13%, portandosi ad un livello inferiore a quello del 2008-2009. In un confronto nazionale al 2013, si tratta di un dato inferiore a quello di Livorno e di poco superiore a quello di Trieste e Venezia. Ma prima di Napoli si collocano stabilmente i porti di Genova e La Spezia (con un movimento rispettivamente quadruplo e triplo), senza considerare ovviamente la punta di Gioia Tauro legata soprattutto al transhipment. Tutto questo mentre, nonostante la crisi, il movimento merci in container attraverso il canale di Suez è aumentato, seppur di poco. La recente notizia dell’abbandono di Cosco, il colosso asiatico del global shipping e della logistica internazionale, e il rafforzamento dei suoi investimenti nel porto del Pireo, rischiano quindi di produrre un’ulteriore accelerazione di questo declino.
Vista di progetto del waterfront storico.
Il Grande Progetto “Sistema integrato portuale di Napoli” e i fondi FESR 2007-2013 avrebbero potuto rappresentare un’occasione per cominciare ad aggredire alcune debolezze strutturali del porto di Napoli e rilanciarne il ruolo, seppur dentro un quadro oggettivamente difficile che non consente certo di fare affidamento alle sole forze locali senza significative strategie di rete. La sensazione che si ricava dalla gestione di questa iniziativa è invece di una debolezza strategica che rende questo Progetto inadeguato a dare risposte organiche per un rilancio duraturo.
L’arretratezza strutturale del porto infatti è sicuramente legata alla sua accessibilità via mare, alla difficoltà di attracco per le nuove supernavi porta-container soprattutto per motivi di limitato pescaggio e di inadeguatezza delle banchine, come anche ad altri fattori di carattere organizzativo tra cui le procedure e i tempi di sdoganamento delle merci e i tempi di attesa delle navi per il carico/scarico. Le opere di adeguamento dei fondali e l’adeguamento delle infrastrutture di ormeggio e stoccaggio sono quindi necessarie. Ma manca un chiaro indirizzo volto a dare risposta alla debolezza delle connessioni infrastrutturali con le reti regionali, nazionali e transnazionali, a partire da quelle su ferro, e all’inesistenza di fatto di un retroporto con strutture interportuali dimensionalmente adeguate agli standard della logistica a livello internazionale. Fattori questi che sono anch’essi sicuramente centrali per comprendere il calo di interesse da parte dei grandi operatori economici.
Questa situazione avrebbe richiesto scelte più attente e lungimiranti volte a potenziare e qualificare le naturali connessioni e sinergie con l’Interporto di Nola e il suo sviluppo, per determinare le condizioni di un’attrattività infrastrutturale e gestionale capace di dare il necessario impulso allo sviluppo della logistica e della lavorazione delle merci in arrivo e in partenza. Né più né meno cioè di quanto hanno capito tutti i grandi porti europei a partire dal nord Europa, producendo ricadute economiche rilevanti per le città e il loro sistema manifatturiero. Aumentare le prestazioni di accessibilità e ormeggio per le grandi super-navi senza creare le condizioni per un incremento adeguato degli spazi di movimentazione e lavorazione delle merci e senza una prospettiva di sviluppo dei fattori attrattivi per la localizzazione di grandi player logistici, non delinea le condizioni sufficienti per un rilancio strategico del porto di Napoli in una situazione di così alta competitività come quella sin qui descritta.
Lo sviluppo dell’Interporto Campano di Nola è una condizione imprescindibile per questa prospettiva, atteso che il destino della zona orientale della città va nella direzione di una profonda rigenerazione urbana e non di una nuova industrializzazione specializzata.
Ma oggi il terminal intermodale di Nola movimenta quantità irrisorie di contenitori marittimi all’anno rispetto alle sue potenzialità. Lo stesso previsto ampliamento dell’Interporto – di cui si parla da circa 10 anni ma di fatto realizzatosi solo in piccola parte per realizzare le officine di riparazione di materiale rotabile della società NTV (Nuovo Trasporto Viaggiatori) – è bloccato da una incerta previsione della domanda localizzativa a causa di una sostanziale precarietà delle relazioni con quello che dovrebbe essere il suo principale motore, il porto di Napoli. Le ragioni di questa precarietà sono tante, non ultima quella di una difficoltà di rapporti tra i soggetti pubblici e privati delle due grandi strutture che, invece di cooperare attivamente nella stessa direzione, appaiono spesso in conflitto e comunque incapaci di garantire una governance unitaria di quello che dovrebbe essere un grande e integrato sistema infrastrutturale e della logistica. Ma esistono anche altre ragioni. Ad esempio la debolezza delle connessioni ferroviarie Porto-Interporto che ha sempre avuto due nodi critici: il cosiddetto “salto del montone” – e cioè il progetto ferroviario di connessione fra la tratta Cancello-Nola e la tratta Napoli-Cancello-Cassino che consente un più agevole raccordo ferroviario – e lo storico conflitto ferrovia/strada lungo il binario del “Traccia” all’uscita del recinto portuale all’altezza di via Galileo Ferraris. Ma proprio quest’ultimo è stato inserito nel Grande Progetto “Riqualificazione Urbana Napoli Est”, finanziato anch’esso con fondi FESR, prospettando così la rimozione di un ostacolo rilevante all’efficienza del traffico ferroviario in entrata e uscita dal porto.
Vista notturna di progetto del waterfront storico.
L’esistenza di inadeguate condizioni di accessibilità Porto-Interporto è stata una delle motivazioni che hanno inibito le reali possibilità di insediamento anche di grandi player logistici per lo sviluppo di servizi logistici a valore aggiunto, complementari al trasporto e stoccaggio delle merci, quali l’assemblaggio, la finitura, l’etichettatura, il kitting, come rilevarono le indagini che effettuammo in occasione del progetto di ampliamento dell’Interporto Campano di Nola nel 2007-2008. L’assenza di un respiro strategico del Grande Progetto “Sistema integrato portuale di Napoli”, capace di andare aldilà del recinto portuale e di fare i conti con la dimensione metropolitana del problema, non impedisce quindi solo di pensare alla razionalizzazione del sistema portuale-interportuale per garantire il necessario raccordo con le reti infrastrutturali e la distribuzione delle merci a livello regionale, nazionale ed europeo. Ma anche di favorire possibili processi di sviluppo locale attraverso la crescita di settori manifatturieri di qualità, legati alle lavorazioni complementari al trasporto e allo stoccaggio, che costituirebbero un volano importantissimo per l’economia urbana della città metropolitana.
Si tratta di una prospettiva che non può essere estranea, né alle priorità strategiche della futura Città Metropolitana né alla nuova legge di riassetto delle Autorità portuali e degli scali nazionali e alla più ampia riflessione in atto per la costruzione di un’Agenda Urbana del Governo in grado di dare finalmente uno spazio adeguato alle esigenze della portualità italiana.
Notes
[1] Nel Consiglio di Amministrazione vengono chiamati, come esperti in campo urbanistico ed economico, rispettivamente il sottoscritto e il collega Robert Leonardi (ordinario di Politiche economiche presso la London School of Economics), con l’obiettivo di contribuire alla guida del processo con le necessarie competenze richieste.
[2] La Commissione del Concorso internazionale era composta da Bernardo Secchi (presidente), Benedetto Gravagnuolo (allora preside della facoltà di Architettura), Robert Leonardi, Alberto Bracci Laudiero (in rappresentanza dell’Autorità Portuale) e il sottoscritto.
[3] Rimando in proposito alle posizioni che ho espresso sulla stampa locale in “Le mire degli armatori dietro il no a Nausicaa”, La Repubblica Napoli, 11 novembre 2010, e “Il declino del porto in una città senza waterfront”, La Repubblica Napoli, 25 marzo 2014.
[4] I dati che vengono di seguito commentati fanno riferimento alle seguenti fonti: le Newsletter semestrali e i dati statistici di Assoporti (https://www.assoporti.it/); i rapporti periodici dell’ISFORT (https://www.isfort.it/); il Rapporto dell’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) “Review of Maritime Transport. 2013”; il documento “Piano della logistica. Analisi dei processi di filiera. Morfologia dei flussi logistici internazionali “feelings & insight” del sistema logistico italiano” curato da D’Appolonia per il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel 2011; il Rapporto Unicredit “Looking for Changes. Infrastrutture e trasporti” 2013”, AA.VV., “Il rilancio della portualità e della logistica italiana come leva strategica per la crescita e la competitività del Paese, Documento di indirizzo strategico”, 2013, The European House – Ambrosetti.
Referimenti
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Pavia R., Di Venosa M., “Waterfront. Dal conflitto all’integrazione”, Trento, List, 2012.
Head image: Vista attuale del golfo e del porto di Napoli.