Venezia e la duplice eredità portuale

19 Maggio, 2019

Venezia ha una duplice eredità portuale: quella di quando era tutta città porto, e aveva dato luogo nel suo baricentro, il bacino di San Marco, ad un possente sistema di attrezzature e di manufatti per la navigazione e il ricovero delle merci, e quella di quando trasferì il suo porto sul proprio confine occidentale, concentrandolo in un luogo specializzato collegato alla terraferma dalla ferrovia. Vedremo quindi come questo processo ha preso forma, e come abbia portato ad un duplice insieme di iniziative di preservazione e valorizzazione delle strutture abbandonate.

Nel corso della sua storia, Venezia è venuta assegnando al Bacino di San Marco la funzione di vero luogo portuale; con banchine per il deposito delle merci, scivoli per l’alaggio e il varo delle imbarcazioni, magazzini per le granaglie e il sale, alloggi per marinai, ospizi per pellegrini in partenza verso la Terrasanta, ospedali per i naviganti, forni per il biscotto con cui rifornire le navi, squeri e cantieri per la costruzione e la riparazione di imbarcazioni di ogni sorta, ponti levatoi per l’ingresso delle navi in Arsenale. Ma anche sicuro specchio d’acqua, protetto dai venti di bora, per la lunga sosta alla fonda di gran parte della flottiglia: dove trasbordare con barche di minor stazza le merci più preziose fino ai fondaci della città, o – lungo fiumi e canali – fino alle città della terraferma; dove imbarcare equipaggi, armamenti e milizie per le spedizioni in Oriente; dove ospitare, nelle zone immediatamente più interne, le sedi delle comunità straniere più direttamente legate alle attività marinare, dei Greci e dei Dalmati, o dei Templari; da dove, infine, accedere all’Arsenale, l’enorme macchina approntata dalla Repubblica per la costruzione e l’armamento della flotta militare e civile.

In questo contesto si ergono imponenti manufatti, che sono veri e propri magazzini portuali, e che spesso nella denominazione corrente assumono il nome dalle derrate ospitate, o dei luoghi da cui provengono. Come i Granai (di San Marco, o di Terranova) subito dopo il risvolto della Piazza sul Molo, imponente manufatto trecentesco costituito da quattro corpi di fabbrica incorniciati da una facciata gotica che rivaleggia per estensione e imponenza con il vicino Palazzo Ducale; e come, sul capo opposto del molo, all’incrocio del rio che conduce all’Arsenale, l’altro imponente Granaio (di San Biagio), di poco più piccolo di quello di Terranova, di fronte ai forni dove si producevano enormi quantità di pan biscotto, alimento indispensabile per le lunghe navigazioni dei navigli veneziani. Nello stesso tempo sul fronte occidentale, sulle banchine lungo il Canale della Giudecca, prendono corpo altre inequivocabili ed estese strutture portuale, i magazzini della Dogana, l’emporio dei Sali e, sulla fondamenta opposta, sequenze di altri granai e magazzini per il legname.

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Darsena e magazzini del Punto Franco all’isola di San Giorgio, 1830 circa.

Questo modello resse per secoli, pur con alterne vicende, tanto che anche nella fase della prima modernizzazione della città sembrava dovesse sopravvivere: ne fa fede la realizzazione napoleonica della Darsena all’isola di San Giorgio, primo Porto Franco della città, con banchine, e torrette, e retrostanti depositi. Fino alla metà dell’ottocento, quando la città acquisisce la consapevolezza che la simbiosi con il porto non avrebbe più potuto far fronte alla repentina rivoluzione dei commerci, sostenuta, oltre che dal nuovo quadro politico che si stava delineando in Europa, dalle radicali innovazioni tecnologiche intervenute nelle modalità della navigazione, e nella concezione stessa dei navigli; cui stavano conseguendo altrettanto radicali innovazioni nell’organizzazione e nello svolgimento delle funzioni portuali.

Di lì a qualche anno infatti Venezia non è più un’isola: il collegamento con la terraferma (da Milano) attraverso il ponte ferroviario (realizzato nel 1841-42 dall’amministrazione austriaca) raggiunge la città sul fronte occidentale, determinandovi la nascita di una nuova consistente polarità urbana che si allontana progressivamente dalla centralità del Bacino: una polarità che si rafforza, in particolare, con la costruzione della Stazione Marittima (1860), la nuova darsena portuale non lontana dalla stazione ferroviaria e ad essa presto efficacemente collegata. I moli e il bacino interno, separati dalla città dal canale della Scomenzera, vengono collegati alla ferrovia (tra 1884 e 1887) tramite il ponte di ferro posto sulla testata occidentale del Canal Grande, mentre nel loro intorno si installano presto magazzini, tettoie, gru, silos e cisterne.

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Progetto della Stazione Marittima, 1867.

Declina quindi progressivamente, quanto repentinamente, il modello della città-porto, e si impone quello del porto come luogo specializzato, separato dalla città, anche se fisicamente ad essa ancora unito. Vi si arriva adesso dal mare attraverso bocche di porto i cui fondali vengono repentinamente approfonditi per consentire il passaggio di navi di stazza sempre più grande, munite di dighe che si protendono verso il mare aperto; e si attraversa certo ancora il Bacino, ma non più per sostarvi, perché occorre subito imboccare il Canale della Giudecca per raggiungere il porto che è al suo capo estremo.

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Silos, magazzini e burci sul Canale della Scomensera, anni ’30 del secolo scorso (a sinistra).
Silos della Stazione Marittima, abbattuti nel 1979 (a destra).

Il nuovo porto determina ingenti trasformazioni funzionali e urbanistiche lungo il bordo occidentale della città, per secoli incerto confine fra acqua e terra: vi compare ora perentoriamente la manifattura, sostenuta da capitali stranieri e attratta dall’inedita compresenza di attrezzature ferroviarie e moderne banchine portuali capaci di ospitare navi di sempre maggior tonnellaggio; oltre che dalla presenza di terreni facilmente conquistabili attraverso l’imbonimento di sacche e barene.

In una situazione proto-industriale nella quale l’insularità di Venezia, mediata peraltro dal collegamento ferroviario con la terraferma, non costituisce ancora un fattore negativo, la Stazione Marittima si viene rapidamente rafforzando, prima con lo sviluppo longitudinale dei due moli che circoscrivevano la darsena iniziale, e poi con il loro inspessimento e con la costruzione della banchina lungo il tratto terminale del Canale della Giudecca.

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Magazzini del Punto Franco alla Marittima, anni ’30 del secolo scorso.

Da questo forte nucleo portuale partono successivi sviluppi: verso est, cioè in direzione della città, gli equipaggiamenti del nuovo Punto Franco (in funzione dal 1892) e dei Magazzini Generali (1896), che occupano le banchine sulla parte terminale del Canale della Giudecca, a loro volta presto servite da raccordi ferroviari che percorrono il ponte in ferro sul canale della Scomenzera.

Al cadere del secolo, tutta la parte di città protesa verso la terraferma ha cambiato completamente aspetto e funzioni, ricca di infrastrutture e manufatti tipici di una vera e propria periferia portuale. Vi compaiono presto attività produttive vere e proprie e nuove infrastrutture urbane, che occupano tutte le aree disponibili lungo i margini occidentali della città: oltre al Punto franco, e ai Magazzini Generali, l’Officina del Gas nel vasto triangolo dell’ex Campo di Marte, e l’Acquedotto (inaugurato nel 1884) nella vicina zona di Sant’Andrea, rifornito dalla nuova condotta sublagunare proveniente dalla terraferma.

Questo vasto insieme si spinge fino a toccare le aree della settecentesca Manifattura Tabacchi, allora una delle industrie più importanti. Si forma così un imponente complesso di attrezzature che si prolunga ulteriormente, fino a chiudere completamente il bordo occidentale della città: verso nord, a Cannaregio, oltre la stazione ferroviaria, sorgono i complessi produttivi della Saffa, dei mulini Passuello e Provera, e di aziende minori successivamente occupate dalla Linetti, invadendo tutto il vasto spazio disponibile a sud del Macello comunale; verso sud, oltre il Canale della Giudecca, sorgono le grandi concentrazioni produttive dei mulini Stucky (1883) e della Distilleria Veneziana (1902), fino ai vasti magazzini a Sacca Fisola poi demoliti per far posto al quartiere residenziale del dopoguerra.

Ma presto le strutture del porto insulare appaiono insufficienti; lo scavo di un canale navigabile in direzione di Marghera (iniziato nell’agosto 1909) pone fine all’intenso dibattito che fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si era avviato a Venezia sulle ipotesi di ampliamento del porto, determinate dalla necessità di far fronte al repentino aumento del traffico commerciale. Subito dopo, il Piano Regolatore di Porto Marghera, redatto in tempi estremamente rapidi (Piano Cohen Cagli, 1917) definisce tutti gli ingredienti del nuovo porto: a sud della prima darsena (dei Bottenighi) un complesso di opere portuali formato da quattro moli commerciali, grandi ciascuno quanto quelli della Marittima, a loro volta collegati da un raccordo ferroviario alla stazione di Mestre (complessivamente 350 ettari). E un imponente nucleo portuale, circondato da vaste aree industriali, a nord (350 ettari) e a ovest (altri 300), servite a loro volta da canali interni che si raccordano a quello già scavato. Infine, una vasta zona immediatamente alle spalle delle aree industriali vere e proprie (di circa 150 ettari) viene riservata alla creazione del cosiddetto quartiere urbano, previsto per ospitare una popolazione di 30.000 abitanti.

Il nuovo porto di terraferma, pur essendosene staccato, condiziona fortemente il presente di Venezia, e certo l’immediato futuro. La Stazione Marittima viene infatti progressivamente abbandonata, negli stessi anni in cui il porto di terraferma è modernizzato e tecnologicamente ripensato; i monumentali silos dei cereali, che per decenni avevano emblematicamente contrassegnato visivamente l’essenza del porto commerciale, vengono demoliti (nel 1979), e molti magazzini altrettanto repentinamente abbandonati; mentre resta il muro di cinta, una invalicabile barriera che ne chiude gli accessi.

Questa progressiva dismissione delle strutture facenti parte del porto commerciale insulare, occorre ricordare, è parte di un fenomeno che interessa tutta la struttura produttiva della città: Venezia assiste infatti, nel volgere di poco più di un ventennio, alla chiusura della maggior parte delle aziende che ne avevano fatto, fra Otto e Novecento, la più grande realtà produttiva del Veneto. Di quella grande “città industriale” che fu Venezia non restano che grandi aree dismesse e manufatti in disuso, spesso imponenti e di ottima fattura.

A partire dal primo decennio del dopoguerra chiudono infatti con drammatica accelerazione, tutte le fabbriche dell’isola della Giudecca: i Mulini Stucky, la Birreria Dreher, i cantieri navali CNOMV, la fabbrica di orologi Arturo Junghans, la tessitura Herion, la fabbrica di tappeti Gaggio, la fabbrica di ghiaccio Tanner, la distilleria Pizzolotto. Chiudono le fabbriche più direttamente collegate al porto e alla ferrovia: come il Cotonificio Veneziano a Santa Croce, la Fabbrica di Profumi Linetti e la SAFFA a Cannaregio. Resiste fino agli anni ’80 la storica Manifattura Tabacchi, ma anch’essa di lì a poco rinuncia. Lo stesso accade per le grandi attrezzature urbane ottocentesche, divenute rapidamente obsolete: il vasto Macello Comunale a Cannaregio, le due officine del gas, a Castello e a Santa Croce, i magazzini e i silos granari al Porto. E chiude l’Arsenale.

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Varco fra i Magazzini Portuali, dopo il recupero (© Franco Mancuso, 2011), in alto a sinistra.
Magazzini del Punto Franco, ora sedi universitarie (© Franco Mancuso, 2010), in alto a destra.
Uffici e sede dell’Autorità Portuale (© Franco Mancuso, 2010), in basso.

Scompare dunque la Venezia imprenditoriale. E scompare la Venezia operaia. Ma lasciando in eredità alla città un enorme patrimonio di aree ed edifici. Gradatamente si avvia un’intensa azione di recupero, per funzioni e attività diverse: si fanno case pubbliche nell’area ex Fregnan a Sacca Fisola, nell’ex Trevisan alla Giudecca e nell’ex Saffa a Cannaregio. Spesso si fa tabula rasa di ogni preesistenza, ma talvolta, come alla Giudecca, si accetta la sfida del recupero dei bei manufatti esistenti, alla ex Dreher, alla ex fabbrica del ghiaccio e agli ex granai. Si realizzano sedi per l’università, più che mai affamata di spazi, all’ex Macello e all’ex Cotonificio Veneziano, e presto agli ex Magazzini Ligabue; attrezzature per la cantieristica minore all’ex CNOMV; e all’ex Herion incubatori, ovvero luoghi per ospitare aziende artigianali e di servizio. Si inizia la realizzazione della “cittadella della giustizia” nell’ex manifattura Tabacchi, liberando in prospettiva gli affollatissimi locali delle Fabbriche nuove di Rialto. E ovviamente c’è il turismo: con l’Hilton che recupera l’enorme volumetria dell’ex Mulino Stucky, per farne un gigantesco lussuosissimo albergo (e abitazioni altrettanto lussuose).

Il recupero delle strutture portuali di Venezia si inserisce quindi in questo più vasto fenomeno, al quale contribuisce con interventi rilevanti, non di rado esemplari per qualità delle scelte architettoniche e appropriatezza delle nuove funzioni ospitate. Accompagnandosi al riuso, già in atto da decenni, delle più antiche strutture cittadine, come l’ex granaio di San Biagio, che ospita il Museo Storico Navale, il Fondaco del Megio, che diviene sede di una scuola elementare, i Magazzini del Sale, spazi espositivi e sedi di associazioni cittadine, la Dogana, ora grande spazio espositivo, la struttura dell’ex Punto Franco napoleonico, ora darsena di un circolo velico cittadino e sede espositiva della Fondazione Cini.

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Dogana da Mar secolo XIV, con interventi seicenteschi (torre), e ottocenteschi (facciate) (© Franco Mancuso, 2011), in alto a sinistra.
Magazzino del grano (metà ‘500), all’imbocco dell’Arsenale (© Franco Mancuso, 2017), in alto a destra.
Emporio dei Sali (secolo XIV, con facciate di metà ‘800) (© Franco Mancuso, 2014), in basso.

Quanto alle strutture e ai manufatti della Marittima, aperta l’area alla città dopo la demolizione (nel 1998) del muro che la circoscriveva, essi sono oggi sopratutto sedi di strutture universitarie, ottimamente ospitate negli ex Magazzini Ligabue grazie ad un intervento di recupero che valorizza i bei percorsi a ballatoio un tempo funzionali al ricovero delle merci. Altri magazzini ospitano gli uffici dell’Autorità Portuale, e sedi di agenzie che hanno rapporti con le attività del porto, ed uno di essi, ricavato alla fine dell’800 nell’edificio dell’antica chiesa quattrocentesca di Santa Marta, è ora sede di un bell’auditorium.

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A sinistra Chiesa di Santa Marta (secolo XIV), incorporata nella Marittima e adibita a Magazzino Portuale, oggi auditorium. (© Franco Mancuso, 2015)

Le banchine portuali, un tempo interdette, sono divenute un vero prolungamento delle Zattere, aperte alla città, collegate efficacemente all’imbarcadero di San Basilio; dove peraltro si rimpiange la perdita di quell’immagine portuale così emblematicamente efficace che era rappresentata fino a pochi anni fa dalla sequenza di bellissime gru, ora malauguratamente scomparse.

Resta da dire che, nel contempo, la riconversione delle banchine, dei moli e dei magazzini subito al di là del Canale della Scomensera è stata attuata in funzione dell’attracco delle “grandi navi”: perché Venezia ha rivelato un’imprevedibile quanto repentina potenzialità, assumendo in pochi anni il ruolo di terminal croceristico di rilevanza mondiale. Un terminal che, per le compagnie di navigazione, trova il suo valore proprio nel raggiungimento della Marittima. Si tratta come è noto di un vero boom, che porta la città all’attenzione di un dibattito internazionale sull’ incompatibilità di Venezia con gigantesche città galleggianti che quotidianamente la attraversano, muovendosi lungo l’antico delicato percorso che interseca il Bacino di San Marco; e che, per raggiungerlo (ed uscirne) attraversano l’altrettanto delicato tracciato dei canali lagunari.

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L’area della Stazione Marittima dalla torre dell’ex Mulino Stucky (sullo sfondo due grandi navi). (© Franco Mancuso, 2010)

Sono le vicende con le quali Venezia oggi quotidianamente fa i conti. A fronte di un domani che sembra per molti versi ancora assai oscuro, perché le grandi opere per la difesa delle bocche di porto, calibrate sulle stazze di grandi navi commerciali, sono in gran parte già realizzate, e sembrano non garantirle un rassicurante futuro.


Head Image: Magazzini portuali e gru sulla banchina della Marittima, prima degli interventi di recupero. (© Franco Mancuso)


Article reference for citation:
Mancuso Franco,“Venezia e la duplice eredità portuale” PORTUS: the online magazine of RETE, n.37, May 2019, Year XIX, Venice, RETE Publisher, ISSN 2282-5789, URL: http://portusonline.org/it/venezia-e-la-duplice-eredita-portuale/

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