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La costante resistenziale della cucina sarda
Le città portuali sono spesso luoghi di intensa ibridazione dove lo scalo di persone e lo scambio di merci produce inedite combinazioni di elementi che ne arricchisce il DNA umano e culturale. Il porto, dispositivo liquido ma anche spugnoso, tende ad assorbire quanto arriva dal mondo esterno e, al contempo, a rilasciare materiali, qualità e caratteri autoctoni in un continuo flusso di interscambio che finisce col generare quel timbro cosmopolita che accomuna le città portuali.
Ogni regola, com’è noto, prevede le sue eccezioni. Cagliari [1] è città portuale sin dalla sua fondazione da parte dei fenici e sul porto ha basato gran parte della sua fortuna nel corso di tutta la sua storia, passata e presente; tuttavia la città, come del resto l’intera regione sarda, sembra opporre una particolare forma di resistenza alle contaminazioni portuali.
La Sardegna, isola posizionata al centro del Mediterraneo estesa per 24.000 km2 con circa 2.000 km di costa, è da sempre stata crocevia di navigazione per mercanti e pirati interessati a commerciare o depredare. Fenici e cartaginesi, i maggiori imprenditori marittimi dell’antichità, vi hanno fondato scali commerciali, poi conquistati dai romani; i mercanti pisani, approdati sull’isola, ne hanno fortificato i porti contro le scorrerie arabe.
Per l’abbondanza e la ricchezza delle sue materie prime e la sua posizione strategica, la Sardegna è sempre stata terra di conquista e colonizzazione da parte di bizantini, aragonesi, spagnoli e piemontesi ma, a differenza di altre regioni nelle quali l’elemento colonizzatore ha finito col fondersi con l’autoctono in un reciproco vantaggioso arricchimento, il popolo sardo ha sempre opposto una certa forma di diffidenza verso quanti sbarcassero sull’isola, convinti che furat chie venit dae su mare (ruba chi viene dal mare). Giovanni Lilliu, uno dei più acuti studiosi e interpreti della cultura sarda, riconosceva che per i sardi “il mare è il diavolo, ed i navigatori stranieri sono anch’essi diavoli (o dei ladri, che è la stessa cosa)” [2].
L’indole sarda è dunque più sospettosa che fiduciosa o remissiva rispetto allo straniero che approda dal mare, atteggiamento che ha favorito il consolidamento di quella che Lilliu chiama costante resistenziale sarda: “Qual singolare destino storico quello della Sardegna: posta quasi costantemente sotto una dominazione esterna, essa ha sempre resistito!” [3]. I sardi, “fattisi isolani per abito intellettuale, morale e culturale” [4], hanno compiuto quasi certamente un miracolo nel restare fedeli alle origini più autentiche e pure nonostante la continua aggressione da parte di popolazioni diverse.
La struttura del porto di Cagliari, il cui impianto originario fu costruito dai fenici, rifletteva tale atavica diffidenza. Ampliato e fortificato durante la dominazione della potente Repubblica Marinara di Pisa, il porto era recintato da una possente muraglia che lo separava dalla città e protetto lungo il litorale da una cintura di pali che impedivano l’ingresso delle navi; solo un ridotto varco, protetto da una pesante catena, permetteva di accedere alle banchine. Verso la fine dell’Ottocento, il porto venne attrezzato con il Palazzo Sanità per il controllo delle merci in entrata al fine di proteggere ulteriormente la città da eventuali epidemie [5].
Al primo posto dell’export portuale si posizionava il commercio del sale marino, prodotto dall’ingegnoso sistema delle saline del Molentargius. Utilizzato per la conservazione degli alimenti e ingrediente indispensabile in cucina, il sale è diventato protagonista di prodotti locali come la bottarga (uova di muggine, cefalo o tonno salate, pressate ed essiccate) che si gusta a fette sottili condite con olio d’oliva e succo di limone o grattugiate come condimento.
Il ricco pescato che approda al porto caratterizza tuttora la maggior parte delle ricette cagliaritane che, nonostante la “costante resistenziale”, non sono riuscite a sfuggire alla contaminazione delle influenze provenienti dai porti liguri, catalani e tunisini con i quali la città più frequentemente intratteneva scambi commerciali.
Tra le più apprezzate ricette della tradizione sarda è la fregola (pasta secca di semola di grano duro dalla forma di piccole pallineirregolari) in zuppa di arselle (vongole), cozze e calamari, strettamente imparentata con la tradizione maghrebina del cous cous. Su scabbecciu, pesce fritto e condito con salsa agrodolce a base di aceto, aglio, cipolla e salsa di pomodoro – ricetta della cucina povera attenta alla conservazione degli ingredienti più deperibili come il pesce – presenta affinità con l’escabeche della cucina spagnola e il baccalà agrodolce alla ligure. Sa panada, piccola torta salata con ripieno di anguille, carne al sugo o verdure, richiama da vicino le empanadas iberiche.
Difficile risalire alla paternità delle origini di queste ricette; di certo si può affermare che le varianti cagliaritane possiedano caratteristiche peculiari che le identificano come piatti della tradizione culinaria locale.
Fregola con cozze, vongole, calamari e salsa di pomodoro.
Un prodotto su tutti, però, si distingue come il vero rappresentante della “costante resistenziale” della cucina sarda: il pane carasau.
La preparazione del pane carasau ha origini antiche e risale ai tempi dei pastori sardi che se ne nutrivano durante i lunghi periodi della transumanza. La caratteristica doppia cottura del pane consente, infatti, di conservarlo a lungo e la sua leggerezza lo rende facile da trasportare.
Caratteristiche distintive sono la croccantezza, la friabilità, la sottigliezza e l’assenza di mollica (che lo renderebbe più facilmente deperibile). Il processo di preparazione prevede un impasto di acqua, farina e lievito che, dopo la lievitazione, viene steso con il mattarello in dischi rotondi sottili; una prima cottura in forno durante la quale i dischi si gonfiano formando un palloncino; il taglio in senso longitudinale per separare il disco in due metà (sos duos pizos) che hanno una faccia liscia (quella che era all’esterno della focaccia) e una ruvida (il lato interno della focaccia); una seconda cottura durante la quale l’umidità residua evapora e che rende il pane croccante come un cracker.
Cesto di pane carasau.
Il pane carasau può essere consumato secco, cioè al naturale, o dopo una rapida reidratazione in acqua; in questo modo il pane riacquista elasticità e può essere avvolto intorno a salumi e formaggi. La sua capacità di assorbire i liquidi lo rende un perfetto compagno di zuppe, sughi e cibi che rilasciano acqua e grassi (verdure, carni, pesci).
Anche raffermo, il pane carasau dà il meglio di sé. Per non sprecare il pane avanzato c’è chi lo intinge nel cappuccino e chi lo usa per ricette come su mazzamurru, dove strati di pane si alternano al sugo di pomodoro, al formaggio grattugiato e al brodo (come una lasagna).
Qualora vi avventuraste alla scoperta della cucina cagliaritana, prestate attenzione al pane carasau: lo troverete infatti dappertutto! Nascosto sotto un tagliere di salumi e formaggi, in compagnia di una terrina di pecorino fuso o alla griglia, immerso nella zuppa di cozze, avvolto intorno alla crema di formaggio sarda, mimetizzato nella panatura delle bombas (polpette di carne) o, semplicemente, disteso ad attendervi su un cesto quale fiero rappresentante della “costante resistenziale” della cucina sarda!
Cestini di pane carasau accolgono la crema di formaggio sarda preparata con ricotta di pecora, pecorino sardo fresco, pecorino sardo stagionato, pepe e peperoncino.
IMMAGINE INIZIALE | Antipasto di terra con salumi e formaggi sardi su plateau di pane carasau. (Foto: Alessandra Badami).
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NOTE
[1] Cagliari è capoluogo regionale della regione Sardegna.
[2] Giovanni Lilliu, La costante resistenziale sarda, a cura di Antonello Mattone, Ilisso, Nuoro, 2002, p. 295. Il volume raccoglie la riedizione di articoli dell’archeologo Giovanni Lilliu (Barumini 1914 – Cagliari 2012) pubblicati su quotidiani, riviste e convegni dal 1946 al 1997.
[3] Ibidem, p. 294.
[4] Ibidem, p. 225.
[5] Ampiamente distrutto da bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, il porto è stato ricostruito nella sua forma attuale nella seconda metà del Novecento.