Venezia, la città, il porto

19 Gennaio, 2018

Non credo che vi siano altre città di mare nelle quali la simbiosi con le funzioni portuali sia stata così intima come a Venezia: dove porto e città convivono e si intersecano per più di un millennio, all’interno di una densissima compagine urbana che per secoli è stata fra le più popolate d’Europa, che ha ospitato il porto più importane dell’Adriatico ed è diventata il fulcro dei rapporti commerciali e dei collegamenti fra Oriente e Occidente.

In questo lungo arco di tempo Venezia ha accolto nella propria struttura urbanistica le più importanti attrezzature necessarie allo svolgimento delle funzioni portuali; in un processo che ha visto continui affinamenti funzionali e tecnologici, nel campo della navigazione e nella concezione stessa dei navigli; ma senza il ricorso a specializzazioni funzionali e separazioni fisiche che ne interrompessero la continuità; rimanendo, anche quelle legate alla costruzione delle navi maggiori, intimamente legate alla vita della città, seppure circoscritte all’interno di una sua parte cospicua, quella dell’Arsenale.

Questa simbiosi fra porto e città si è resa possibile, oltre che necessaria, anzitutto per il fatto che Venezia è interamente circondata dall’acqua, a differenza di ogni altra città: qui l’acqua del porto è la stessa che irrora la città, nella quale ci si muove lungo canali per gli spostamenti quotidiani e per gli approvvigionamenti di ogni genere. Venezia infatti non è mai stata città di strade, come tutte le altre al mondo: fu fin dall’inizio, e lo è tuttora, città di canali che vi penetrano e la circoscrivono, e che sono intimamente connessi ad un intorno che è acqua, laguna: a Venezia quindi, più che in ogni altro luogo, la consuetudine quotidiana con l’acqua – la necessità di navigare per entrarvi, percorrerla e vivervi, o per raggiungere la terraferma – ha potuto dar luogo alla concezione di una vera città-porto, sorta in un ambiente marino sicuro e naturalmente protetto, ancorché collegato con il mare aperto; qui si sono potute sviluppare infatti tutte le competenze necessarie per la navigazione (a vela e a remi) lungo incerti canali di collegamento con l’Adriatico caratterizzati dalla presenza di impercettibili e mobili bassifondi continuamente alterati dal flusso delle maree e dalle correnti stesse.

A Venezia ci si è potuti assuefare facilmente alla difficile pratica quotidiana del trasbordo delle mercanzie con chiatte e imbarcazioni speciali, dai grandi navigli che vi arrivavano dal mare e dai corsi d’acqua navigabili a luoghi e spazi per il deposito diffusi nella città, e viceversa: manufatti per il sale anzitutto, fattore principale del successo del commercio veneziano prodotto nelle grandi saline della laguna o importato da non lontane aree costiere, e per il grano e le derrate alimentari destinati al consumo dei cittadini e delle città della terraferma; e tutti i materiali da costruzione, la pietra bianca proveniente dall’Istria impiegata nell’architettura di tutti gli edifici veneziani, la grigia di tutte le pavimentazioni urbane provenienti dalle cave dei Colli Euganei, il legno proveniente dalle montagne per solai, tetti e fondazioni di tutti gli edifici, oltre che per l’incessante produzione navale: perché nulla vi era a Venezia per costruire case, palazzi, chiese, banchine, ponti, pozzi, imbarcazioni, che non prevenisse da fuori della laguna. Qui ci si sarebbe potuti organizzare in completa sicurezza per affrontare il quotidiano succedersi delle modalità del trasporto – con diverse tipologie di imbarcazioni, sistemi di carico, tempi, manodopera, competenze – sia per penetrare nel labirintico reticolo dei canali urbani, e sia per collegarsi con le reti dei corsi d’acqua che consentivano a Venezia di intrattenere rapporti commerciali con città anche lontanissime.

Posta nel baricentro dell’esteso invaso lagunare, Venezia definisce gradatamente il Bacino di San Marco come fulcro del proprio sistema portuale, luogo di confluenza dei percorsi lagunari che la collegano al mare attraverso i varchi allora esistenti lungo i cordoni dunosi del litorale. Ampio specchio d’acqua ben ridossato, non troppo profondo per permettere un facile ancoraggio anche a grandi navi, il Bacino è però allo stesso tempo luogo emblematico della città, spazio urbano sul quale si apre la cerniera più importante fra l’acqua e la terra: dove prospettano gli edifici più rappresentativi, Palazzo Ducale e San Marco, e si staglia il Campanile indicando visualmente il traguardo della navigazione per chi vi giunge da fuori.

E sul Bacino si apre la Piazza, che risvolta spazialmente in uno spazio che assume la denominazione toponomastica di Molo, significativamente conservata nel tempo: uno spazio che è anche l’ingresso aulico e simbolico di Venezia, ben visualizzato dalle due colonne che ne marcano la soglia sulla quale venivano ricevuti dal Doge papi, regnanti e ambasciatori, e approdava il Bucintoro.

Non è dunque a caso che tutta l’iconografia storica ritragga Venezia attraverso un’immagine costruita a partire da un punto di vista che pone al centro l’affaccio della città sul Bacino: fin dalle prime rappresentazioni tardo quattrocentesche, e poi definitivamente nella celeberrima veduta prospettica incisa da Jacopo De Barbari nell’anno 1500. D’ora in poi la città è sempre ripresa da sud, con l’ampio fronte arcuato rivolto verso il bacino di San Marco; oltre a edifici e canali, vi sono sempre rappresentate – con la stessa attenzione ai particolari usata per le architetture – imbarcazioni di ogni tipo, a vela e a remi, in movimento e alla fonda, in procinto di scaricare merci o di imbarcare equipaggi. L’immagine di Venezia, insomma, non può prescindere da questa variegata e animatissima flotta, la cui massima concentrazione è appunto nel Bacino, e in particolare nel tratto che dall’imbocco dei due grandi canali urbani – Canal Grande e Canale della Giudecca – giunge fino alla Punta di Sant’Antonio, grosso modo coincidente con gli attuali Giardini della Biennale.

Tutto questo indica che nel Cinquecento il processo di concentrazione delle attività legate al traffico navale è già maturo. Venezia non è più solo tutta città-porto, come alle origini e per buona parte del Medioevo, ma è andata formando un vero fronte portuale, segnato dalla realizzazione (alla metà del XIV secolo) della Dogana da Mar sulla Punta delle Zattere, dei Granai di Terranova a San Marco, dei Magazzini del sale alle Zattere, dei Granai di San Biagio presso l’Arsenale, e dallo sviluppo dell’Arsenale stesso. Si aggiungano i numerosi squeri che si concentrano soprattutto alle Zattere e a Castello, i grandi magazzini sul fronte della Giudecca, la miriade di botteghe artigiane di fabbri, falegnami, cordai, che punteggiano le fondamenta nei pressi dell’Arsenale.

Il Bacino è stato dunque anzitutto luogo portuale, attrezzato per l’attracco delle navi, con banchine per il deposito delle merci, scivoli per l’alaggio e il varo delle imbarcazioni, magazzini per le granaglie e il sale, alloggi per marinai e ospizi per pellegrini in partenza verso la Terrasanta, ospedali per i naviganti, forni per il biscotto con cui rifornire le navi, squeri e cantieri per la costruzione e la riparazione di imbarcazioni di ogni sorta, ponti levatoi per l’ingresso delle navi in Arsenale; ma anche sicuro specchio d’acqua, protetto dai venti di bora, per la lunga sosta alla fonda di gran parte della flottiglia; dove trasbordare con barche di minor stazza le merci più preziose fino ai fondaci della città, o – lungo fiumi e canali – fino alle città della terraferma; dove imbarcare equipaggi, armamenti e milizie per le spedizioni in Oriente; dove ospitare, nelle zone immediatamente più interne, le sedi delle comunità straniere più direttamente legate alle attività marinare, dei Greci e dei Dalmati, o dei Templari; da dove, infine, accedere all’Arsenale, l’enorme macchina approntata dalla Repubblica per la costruzione e l’armamento della flotta militare e civile.

L’affollamento delle imbarcazioni indica inequivocabilmente che l’ampia banchina sulla quale si affaccia la città è allo stesso tempo un molo portuale, che si prolunga fino a dove si apre l’accesso all’Arsenale e, sul lato opposto, fino all’imbocco del Canal Grande; e che banchine portuali sono pure le due fondamenta che delimitano la forma angolare della Dogana da Mar, vero spartiacque fra Canal Grande e Canale della Giudecca: banchine al servizio degli estesi depositi doganali ubicati non a caso nella postazione più efficace per il controllo delle penetrazioni mercantili verso quello che è un vero prolungamento urbano del porto.

In questo contesto caratterizzato da una diffusa portualità si ergono edifici pubblici e religiosi fra i più importanti della città; ma anche imponenti manufatti, che sono veri e propri magazzini portuali, e che spesso nella denominazione corrente assumono il nome dalle derrate ospitate, o dei luoghi da cui provengono. Come i Granai (di San Marco, o di Terranova) e subito dopo il risvolto della Piazza sul Molo, imponente manufatto trecentesco costituito da quattro corpi di fabbrica incorniciati da una facciata gotica che rivaleggia per estensione e imponenza con il vicino Palazzo Ducale; e come, sul capo opposto del molo, all’incrocio del  rio che conduce all’Arsenale, l’altro imponente Granaio (di San Biagio), di poco più piccolo di quello di Terranova, di fronte ai forni dove si producevano enormi quantità di pan biscotto, alimento indispensabile per le lunghe navigazioni dei navigli veneziani; ma anche sul fronte occidentale, sulla banchina lungo il Canale della Giudecca, dove prende corpo un’altra inequivocabile estesa struttura portuale, caratterizzata dalla sequenza di numerosi granai e magazzini per il sale.

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I grandi granai di Terranova (a sinistra dell’immagine) demoliti all’inizio del’800. (Jacopo De Barbari, 1500)

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I granai di San Biagio, sul Bacino, prossimi all’Arsenale. (Foto: Franco Mancuso)

Altri grandi depositi di derrate si localizzano lungo il Canal Grande, vera iniziale estensione urbana del porto veneziano: come il Fontego della Farina e il Fontego del Megio (megio è forma dialettale di miglio), anch’essi dapprima granai. E, con la loro marcata evidenza architettonica, i grandi fonteghi dati in affitto dal governo alle comunità straniere con le quali intratteneva importanti rapporti commerciali: dei Tedeschi subito dopo il Ponte di Rialto e dei Turchi più oltre, adiacente al Fontego del Megio. Sono strutture anch’esse eminentemente portuali, utilizzate come depositi di merci e beni; ma anche luoghi di residenza temporanea per mercanti e diplomatici di passaggio a Venezia, oltre che sedi di rappresentanza, che non potevano essere ubicate se non all’interno della città, prossime al mercato di Rialto: cosa che per secoli era stato possibile perché il Ponte di Rialto, l’unico che collegava le due parti di città separate dal Canal Grande, era stato ingegnosamente concepito come ponte levatoio (in legno), e come tale era rimasto in funzione fino al grande incendio del 1514 (dopo del quale fu costruito in pietra); e dunque non ostacolava l’ingresso nel porto-canale della città a navi alberate di grandi dimensioni.

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Il Fondaco del Megio, sul Canal Grande. (Foto: Franco Mancuso)

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Il Fondaco dei Tedeschi, sul Canal Grande. (Foto: Franco Mancuso)

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Il Fondaco dei Turchi, sul Canal Grande, intorno al 1720.

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Ponte di Rialto (Jacopo De Barbari, 1500). Più oltre, il “Fontico dalemani”.

Occorre ricordare al proposito che il Canal Grande aveva assolto fin dalle origini della città funzioni eminentemente portuali: più largo di quanto non fosse in epoca rinascimentale, era l’obbligato percorso acqueo per convogliare il traffico delle merci verso i margini dei nuclei urbani in formazione, fino al nascente mercato di Rialto. Come tale, richiamava sulle sue rive le più importanti case-fondaco dei primi mercanti, edifici affacciati sull’acqua che erano al tempo stesso magazzini e depositi di mercanzie preziose al piano terreno e abitazioni ai piani superiori, dei mercanti stessi e di chi lavorava ai loro ricchi commerci.

Dunque, un porto diffuso, con un punto di convergenza nel Bacino: un modello che resse per secoli, pur con alterne vicende, e che anche nella fase della prima modernizzazione della città sembrava dovesse sopravvivere: ne fa fede la realizzazione napoleonica della Darsena all’isola di San Giorgio, primo porto franco della città, e l’idea stessa della strada di collegamento con la terraferma: che sarebbe dovuta sfociare nel Bacino, provenendo da nord-ovest, della quale l’odierna Via Garibaldi (sul tracciato del canale di Sant’Anna di Castello interrato nei primi anni dell’800 ) fu il primo (e l’unico) tratto urbano realizzato.

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La darsena del Porto Franco all’isola di San Giorgio intorno al 1830.

La breve vicenda napoleonica, che qui abbiamo appena richiamato, lascia tuttavia a Venezia i segni di un’idea lungimirante di modernizzazione che ne alimenta vivamente l’immediato futuro: con l’ipotesi del collegamento stradale con la terraferma dunque, e l’idea del rilancio europeo del porto; insieme ad una trama di grandi attrezzature urbane e imponenti giardini pubblici. Il fulcro di questi propositi è ancora il Bacino, anche se ne farà le spese proprio il grande centralissimo manufatto dei Granai di Terranova, sacrificato al disegno di un centro – Piazza San Marco – che ospita ora la dimora napoleonica e che risvolta ancor più marcatamente sull’acqua attraverso le serre e i giardini che prendono il posto del grande manufatto trecentesco.

A Venezia il modello portuale progressivamente incentrato sulla centralità del Bacino regge, sia pure con alterne vicende, fino alla metà dell’ottocento, quando la città acquisisce la consapevolezza, come fra poco vedremo, che la simbiosi con il porto non avrebbe più potuto far fronte alla repentina rivoluzione dei commerci,  sostenuta, oltre che dal nuovo quadro politico che si stava delineando in Europa, dalle radicali innovazioni tecnologiche intervenute nelle modalità della navigazione e nella concezione stessa dei navigli; cui stavano conseguendo altrettanto radicali innovazioni nell’organizzazione e nello svolgimento delle funzioni portuali.

Di lì a qualche anno infatti Venezia non è più un’isola: il collegamento con la terraferma (da Milano) attraverso il ponte ferroviario (realizzato nel 1841-42 dall’amministrazione austriaca) raggiunge la città sul fronte opposto rispetto a quello (stradale) preso in considerazione da quella francese, determinandovi la nascita di una nuova consistente polarità urbana, che si allontana progressivamente dalla centralità del Bacino. Anche se non pochi progetti – vi si cimentano ingegneri e architetti importanti – avevano previsto di far proseguire i binari ferroviari fino al cuore della città: dapprima lungo la fondamenta delle Zattere, fino alla punta della Salute, con un ponte pedonale sul Canal Grande che la avrebbe collegata con la parte centrale della città, prevedendo al contempo grandi magazzini portuali nel mezzo del Canale della Giudecca (progetto Jappelli, 1850); più tardi con i binari che sarebbero corsi lungo il bordo meridionale della Giudecca, e la Stazione Ferroviaria sull’isola di San Giorgio (progetto Lavezzari, Romano, Saccardo, 1868), anch’essa collegata alla città con un nuovo ponte che avrebbe attraversato il Bacino.

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Progetto di G. Biondetti Crovato per la stazione ferroviaria nell’Isola di San Giorgio.

Nel concreto, questa nuova polarità occidentale progressivamente si rafforza, in particolare con la costruzione della Stazione Marittima (1860), la nuova darsena portuale non lontana dalla stazione ferroviaria e ad essa presto efficacemente collegata. I moli e il bacino interno vengono realizzati sulla base delle indicazioni fornite nel 1867 dalla Commissione Paleocapa: sono separati dalla città dal canale della Scomenzera, ma sono collegati alla ferrovia (tra 1884 e 1887) tramite il ponte di ferro posto sulla testata occidentale del Canal Grande. Nel loro intorno si installano presto magazzini, tettoie, gru, silos e, a partire dagli anni ’90, le cisterne del Deposito petroli, trasferite dalla precedente ubicazione di Sacca Sessola.

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Progetto della Stazione Marittima. (Fonte: Commissione Paleocapa, 1867)

È questa la molla che fa scattare il rilancio del porto veneziano, sancendo il consolidamento del nuovo fronte portuale verso la terraferma: declina quindi progressivamente, quanto repentinamente, il modello della città-porto, e si impone quello del porto come luogo specializzato, separato dalla città, anche se fisicamente ad essa ancora unito.

Vi si arriva adesso dal mare attraverso bocche di porto i cui fondali vengono repentinamente approfonditi per consentire il passaggio di navi di stazza sempre più grande, e sono munite di dighe che si protendono verso il mare aperto; si attraversa certo ancora il Bacino, ma non più per sostarvi, perché occorre subito imboccare il Canale della Giudecca per raggiungere il porto che è al suo capo estremo.

Il nuovo porto determina ingenti trasformazioni funzionali e urbanistiche lungo il bordo occidentale della città, per secoli incerto confine fra acqua e terra: vi compare ora perentoriamente la manifattura, sostenuta da capitali stranieri e attratta dall’inedita compresenza di attrezzature ferroviarie e moderne banchine portuali capaci di ospitare navi di sempre maggior tonnellaggio; oltre che dalla presenza di terreni facilmente conquistabili attraverso l’imbonimento di sacche e barene. In una situazione proto-industriale nella quale l’insularità di Venezia, mediata peraltro dal collegamento ferroviario con la terraferma, non costituisce ancora un fattore negativo. La Stazione Marittima si viene rapidamente rafforzando, prima con lo sviluppo longitudinale dei due moli che circoscrivevano la darsena iniziale, e poi con il loro inspessimento e con la costruzione della banchina lungo il tratto terminale del Canale della Giudecca.

Da questo forte nucleo portuale partono successivi sviluppi: verso est, cioè in direzione della città, gli equipaggiamenti del Punto Franco (in funzione dal 1892) e dei Magazzini Generali (1896), che occupano le banchine sulla parte terminale del Canale della Giudecca, a loro volta presto servite da raccordi ferroviari che percorrono il ponte in ferro sul canale della Scomenzera.

Il porto, che per secoli, fino al declino settecentesco, era stato la città stessa, è ora nuovamente una realtà viva e vitale, circoscritta però in un’area separata dalla città da un invalicabile recinto murario. È però un porto in rapido e inatteso sviluppo, che serve un vasto entroterra presto percorso da una estesa rete ferroviaria; e che promette di potersi sviluppare lungo inedite rotte adriatiche e mediterranee. Per aumentare la profondità dei fondali delle bocche di porto si interviene con lo scavo dei canali d’ingresso e con la costruzione di lunghe dighe che si protendono sul mare: dapprima alla bocca di Malamocco, dove la realizzazione delle dighe era stata avviata fin dal 1810 (e sarà completata nel 1872); poi alla bocca di Lido (dal 1881 al 1905); e infine anche alla più periferica bocca di Chioggia (dal 1919 al 1934). Lo scavo dei canali portuali amplifica enormemente l’ampiezza delle bocche (a Malamocco viene portata da -4, -5 m a una profondità di -9, -10, con una larghezza fissata in 470 m; al Lido da -2 m a -7, -9, con una larghezza di 900; e a Chioggia da -4 a -7, -8, con una larghezza di 550). Si unificano le bocche di porto di Sant’Erasmo, Treporti e Lido, e si scavano i canali che, prima attraverso la Laguna (canale di Santo Spirito) e poi attraverso il Bacino di San Marco e lungo il Canale della Giudecca, alimentano appunto la nuova Stazione Marittima.

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Il Porto di Venezia intorno agli anni ’30 del secolo scorso. (Fonte: Archivio Giacomelli)

Al cadere del secolo, tutta la parte di città protesa verso la terraferma ha cambiato completamente aspetto e funzioni, ricca di infrastrutture e manufatti tipici di una vera e propria periferia portuale. Vi compaiono presto attività produttive vere e proprie e nuove infrastrutture urbane, che occupano tutte le aree disponibili lungo i margini occidentali della città: il Punto franco, i Magazzini generali, l’Officina del Gas nel vasto triangolo dell’ex Campo di Marte, l’Acquedotto (inaugurato nel 1884) nella vicina zona di Sant’Andrea, rifornito dalla nuova condotta sublagunare proveniente dalla terraferma. Questo vasto insieme si spinge fino a toccare le aree della settecentesca Manifattura Tabacchi, allora una delle industrie più importanti. Si forma così un imponente complesso di attrezzature che si prolunga ulteriormente, fino a chiudere completamente il bordo occidentale della città: verso nord, a Cannaregio, oltre la stazione ferroviaria, sorgono i complessi produttivi della Saffa, dei mulini Passuello e Provera, e di aziende minori successivamente occupate dalla Linetti, invadendo tutto il vasto spazio disponibile a sud del Macello comunale; verso sud, oltre il Canale della Giudecca, sorgono le grandi concentrazioni produttive dei mulini Stucky (1883) e della Distilleria veneziana (1902), fino ai vasti magazzini a Sacca Fisola poi demoliti per far posto al quartiere residenziale del dopoguerra.

Venezia assiste ad una vera rivoluzione funzionale per sostenere il nuovo ruolo produttivo che è venuta assumendo, che riguarda in particolare i collegamenti (pedonali e acquei) con l’antico suo centro. È una rivoluzione che, come si è visto, avviene in un processo nel quale è determinate il ruolo del porto, la cui presenza induce inevitabilmente interventi che interessano anche la Laguna: come l’escavo dei vecchi canali fino alle bocche di porto cui più sopra si è fatto cenno per le esigenze della nuova navigazione a vapore, ma presto lo scavo di un nuovo canale di collegamento fra la Stazione Marittima e la terraferma (progetto Petit, 1902), l’intervento che favorirà nel futuro assai prossimo l’avventura di Porto Marghera.

Lo scavo del canale navigabile in direzione di Marghera (iniziato nell’agosto 1909) pone fine all’intenso dibattito che fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si era avviato a Venezia sulle ipotesi di ampliamento del porto, determinate dalla necessità di far fronte al repentino aumento del traffico commerciale. È un dibattito nel corso del quale si erano confrontate non poche soluzioni alternative: l’ampliamento della Stazione Marittima con la creazione di una nuova darsena sul fronte occidentale, la costruzione di un nuovo nucleo portuale a sud della Giudecca, nuove darsene a nord del ponte ferroviario di fronte alla Stazione Ferroviaria. Prevale tuttavia l’inedita proposta di un nuovo nucleo portuale a Marghera, che fin dalle formulazioni originarie aveva intravisto nella vicina barena dei Bottenighi (meno di quattro chilometri in linea d’aria dalla Marittima) sia la possibilità di ampliamenti futuri e senza limiti del porto, e sia l’opportunità di più efficienti raccordi ferroviari, potendosi allacciare direttamente alla stazione di Mestre.

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Proposte per l’espansione del Porto Commerciale di Venezia, 1905.

Il canale, che prenderà il nome di Vittorio Emanuele III, è deliberato nel 1904: largo 28 metri e profondo quattro e mezzo, viene scavato dal 1909 al 1916 parallelamente al ponte ferroviario, sotto la gestione del Genio civile, e si completa con una prima darsena che penetra nelle barene e si attesta all’altezza del Forte Marghera. Secondo il progetto, il canale e la darsena avrebbero anche consentito lo scarico in terraferma dei materiali risultanti dagli scavi in Laguna per la realizzazione di ulteriori opere portuali, e soprattutto facilitato l’accesso ai Bottenighi dei natanti attrezzati per i previsti scavi relativi allo sviluppo in terraferma del porto di Venezia.

Il Piano Regolatore di Porto Marghera, redatto in tempi estremamente rapidi (Piano Cohen Cagli, 1917) contiene tutti gli ingredienti del nuovo porto, al quale affianca l’idea di un nuovo polo industriale. Le previsioni urbanistiche si riallacciano al collegamento acqueo con la Marittima realizzato negli anni immediatamente precedenti, prevedendone l’allargamento e l’approfondimento, e individuano, subito a sud della prima darsena (dei Bottenighi) la realizzazione di un complesso di opere portuali formato da quattro moli commerciali, grandi ciascuno quanto quelli della Marittima, a loro volta collegati da un raccordo ferroviario alla stazione di Mestre: complessivamente 350 ettari. Nella previsione del Piano questo nucleo portuale è circondato da vaste aree industriali, a nord (350 ettari) e a ovest (altri 300), servite a loro volta da canali interni che si raccordano a quello già scavato. Infine, una vasta zona immediatamente alle spalle delle aree industriali vere e proprie (di circa 150 ettari) viene riservata alla creazione del cosiddetto quartiere urbano, indicato nel Piano come “zona urbana di Venezia” e previsto per ospitare una popolazione di 30.000 abitanti.

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Il Piano di E. Cohen Cagli per Porto Marghera, 1917.

La concentrazione delle funzioni portuali e industriali in terraferma è ora una realtà concreta, e Marghera, città industriale e appendice urbana di Mestre, crescerà progressivamente, pur fra crisi economiche e acuti conflitti sociali. La sua presenza provocherà tuttavia l’insorge di fenomeni di rilevante impatto ambientale sulla laguna, anche se inimmaginabili al momento della sua concezione, dovuti sia all’imbonimento di un’ampia porzione di barene (circa 1000 ettari della Prima e della Seconda zona industriale, e 1300 della Terza), e sia allo scavo di profondi canali di navigazione – il cosiddetto “Canale dei Petroli”, aperto negli anni Sessanta del Novecento. Le conseguenze di questi interventi sul delicato regime idraulico lagunare saranno dannose: sia per il forte contributo al restringimento del bacino di espansione delle maree (assieme a quello indotto dagli imbonimenti per la realizzazione dell’aeroporto, dell’isola del Tronchetto, del tratto di Strada Romea nella Laguna di Chioggia, per le bonifiche e le numerosissime sacche sui bordi e in prossimità delle isole), e sia per l’aumento della quantità e della velocità dell’acqua che dal mare entra in Laguna; contribuendo dunque all’aumento del fenomeno delle cosiddette “acque alte” che sempre più frequentemente sommergono la città e le isole abitate della laguna.

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Porto Marghera oggi. (Foto: Franco Mancuso)

E Venezia? Il nuovo porto di terraferma, pur essendosene staccato, ne condiziona fortemente il presente, e certo l’immediato futuro. La Stazione Marittima viene infatti progressivamente abbandonata, negli stessi anni in cui il porto di terraferma è modernizzato e tecnologicamente ripensato. Il muro che ne chiudeva gli accessi viene finalmente demolito, e non poche delle strutture vengono adibite ad usi civili (università). Sembra che questo fenomeno possa diffondersi nelle circostanti aree progressivamente abbandonate: ma vi prevale, al contrario, la riconversione di banchine, moli e magazzini per l’attracco delle grandi navi. Venezia rivela un’imprevedibile quanto repentina potenzialità, assumendo in pochi anni il ruolo di terminal croceristico di rilevanza mondiale. È un vero boom, che porta la città all’attenzione di un dibattito internazionale sull’ incompatibilità con Venezia di gigantesche città galleggianti che quotidianamente la attraversano, muovendosi lungo l’antico delicato percorso che interseca il Bacino di San Marco; e che, per raggiungerlo (ed uscirne) attraversano l’altrettanto delicato tracciato dei canali lagunari.


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Università nell’area della Stazione Marittima. (Foto: Franco Mancuso)

Sono le vicende con le quali Venezia oggi quotidianamente fa i conti. A fronte di un domani che sembra per molti versi ancora assai oscuro, perché le grandi opere per la difesa delle bocche di porto, calibrate sulle stazze di grandi navi commerciali, sono in gran parte già realizzate, e sembrano non garantirle un rassicurante futuro.


Head Image: Imbarcazioni alla fonda nel Bacino di San Marco. (Jacopo De Barbari, 1500)

Article reference for citation:
Mancuso Franco,“Venezia, la città, il porto” PORTUS: the online magazine of RETE, n.34, December 2017, Year XVII, Venice, RETE Publisher, ISSN 2282-5789, URL: https://portusonline.org/it/venezia-la-citta-il-porto/

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